05 luglio 2019
A Milano “Remo Bianco. Le impronte della memoria“
Fino al 6 ottobre il Museo del Novecento di Milano ospita la mostra con oltre 70 opere dell’artista
“Certo non posso mai dire ‘sto lavorando a questo’, sì, lavoro anche a questo, ma nel frattempo continuano dentro di me le risonanze di altri momenti,
di altri periodi che devo portare avanti”.
Remo Bianco
Il Museo del Novecento continua l’attività di ricerca sulla Seconda metà del Novecento attraverso la presentazione di alcuni dei suoi protagonisti, con un’attenzione a coloro che hanno lavorato, con felici esiti sperimentali, nel territorio milanese. Remo Bianco. Le impronte della memorie, a cura di Lorella Giudici con la collaborazione della Fondazione Remo Bianco, presenta oltre 70 opere dell’artista, ripercorrendo le fasi della sua ricerca e rappresentandone i percorsi di vita e di lavoro, intrecciati in un flusso di straordinaria energia creativa.
Nella Milano del boom economico, in un’atmosfera culturalmente ed economicamente produttiva, il giovane Remo Bianco conosce e frequenta il grande pittore Filippo de Pisis e il suo entourage. La sua sarà una vita da “ricercatore solitario”, come si era autodefinito, sempre pronto a sperimentare idee nuove, frutto della sua fervida fantasia. Questa capacità di inventare e seguire percorsi nuovi l’hanno reso un artista molto peculiare per quei tempi, propositore di prospettive nuove, con un approccio divertito e sempre attento ai materiali e alle intuizioni espressive.
Tra la fine degli anni Quaranta e l’inizio dei Cinquanta si collocano le prime Impronte, calchi in gesso, cartone pressato o gomma ricavate dai segni lasciati, ad esempio, da un’automobile sull’asfalto, o da tracce di oggetti comuni, giocattoli o attrezzi. L’intento dell’artista è quello di recuperare “le cose più umili che di solito vanno perdute”, come esprime nel Manifesto dell’Arte Improntale del 1956. Risalgono all’inizio degli anni Cinquanta anche i Sacchettini - Testimonianze, realizzati assemblando oggetti di poco valore - monete, conchiglie, piccoli giocattoli, frammenti - in sacchetti di plastica fissati su legno in una disposizione regolare e appesi come un quadro tradizionale.
Dello stesso periodo sono anche le prime opere tridimensionali – i 3D - in materiale plastico trasparente o vetro e, successivamente, su legno, lamiera e plexiglas colorato, dove l’immagine è la combinazione di figure poste in successione su piani differenti, che ne esaltano la profondità.
La serie dei Collages, sviluppata invece nella seconda metà degli anni Cinquanta fino agli anni Ottanta in seguito a un viaggio di Bianco negli Stati Uniti, si basa su un effetto combinatorio di immagini, realizzate con la tecnica del dripping su un unico piano, di tela, carta o stoffa.
Al 1957 risalgono i primi Tableaux Dorés, che costituiscono uno dei cicli più noti dell’artista, oltre che il più duraturo. Lo sfondo bicolore, trattato a olio o a smalto, su cui sono disposte le foglie d’oro, presenta una parte bianca accostata a colori primari. Altri hanno lo sfondo monocromo o sono realizzati con paglia o stoffa.
A partire dal 1965 l’artista dà vita ad alcune opere racchiuse sotto la definizione di “Arte sovrastrutturale” che, mediante un atto di “appropriazione artistica” di oggetti, cose e persone, esprimono l’esigenza di fissare nella memoria in modo indelebile ricordi e realtà. Ascrivibili a questa definizione sono le Sculture neve, teatrini poetici i cui protagonisti sono oggetti comuni tratti dal mondo dell’infanzia, della natura o della vita quotidiana ricoperti di neve artificiale e disposti in teche trasparenti: immobile sotto il manto bianco che la riveste, la composizione trasporta lo spettatore in una dimensione incantata e senza tempo.
I Quadri parlanti, esposti per la prima volta nel 1974, sono invece tele in alcuni casi non lavorate in cotone bianco o nero, in altre impressionate con fotografie, sul cui retro sono posizionati degli amplificatori che, all’avvicinarsi dello spettatore, si attivano emettendo suoni o frasi registrate dall’artista. Il più noto è “Scusi signore…” dove Bianco si auto-ritrae con il dito puntato, immagine già utilizzata nel 1965 quando, in occasione di una personale alla Galleria del Naviglio, la foto compariva su tutti i tram milanesi a coinvolgere l’intera comunità. L’inserimento della voce umana rappresenta un tentativo di oltrepassare la dimensione tradizionale del quadro. Il tema è il bisogno di dialogare con il pubblico, trasformando la tela non più nel teatro della rappresentazione, ma nel luogo dell’ascolto e, soprattutto, del ricordo, punto focale di gran parte del percorso dell’artista.
L’esposizione al Museo del Novecento ripercorre il ricco e sorprendente percorso di Remo Bianco esplorando proprio il tema della memoria, attraverso le sue opere e tramite un’esaustiva documentazione d’archivio: cataloghi, manifesti, articoli e fotografie d’epoca. Il catalogo della mostra, edito da Silvana, è corredato dai testi di Lorella Giudici ed Elisa Camesasca, dagli apparati a cura di Gabriella Passerini e Alberto Vincenzoni e riporta un’interessante intervista a Marina Abramović del 2012, riguardo al lavoro di Remo Bianco, conosciuto nel 1977.
Estratto dell'intervista a Marina Abramović
a cura della Fondazione Remo Bianco (24 marzo 2012, PAC, Milano)
Marina Abramović: Ho incontrato Remo Bianco credo nel 1977, a Ferrara di fronte al Palazzo dei Diamanti e noi… eravamo così poveri. Avevamo solo […] una macchina che avevamo utilizzato in Sardegna […] …, un letto e due scatole con i nostri vestiti. Io realizzavo a maglia dei golf. Eravamo appena arrivati da Orgosolo. Ci avevano dato dei salumi e del pecorino e in cambio avevamo aiutato i pastori al mattino con le capre e le pecore. Era una vita molto semplice. Ma nessun compromesso. Noi dovevamo avere una mostra al Palazzo dei Diamanti, quindi eravamo andati lì. Abbiamo parcheggiato la macchina di fronte al Palazzo dei Diamanti e avevamo dormito in macchina[…].
FRB: Dovevate fare una performance?
Marina Abramović: […] All’interno sì, abbiamo fatto una performance. E allora Remo arrivò e ci parlò e siamo diventati amici. Ci portò ogni giorno a pranzo. In quei giorni abbiamo mangiato il miglior cibo di sempre e mi ricordo che non avevamo bisogno di pagare perché tutti i ristoranti lo conoscevano e, sai come si faceva allora, dava qualche sua opera in cambio del pranzo. Al tempo aveva tre studi pieni di opere in diversi posti a Milano, non ricordo dove esattamente, la mia memoria non è buonissima. Mi ricordo che mi piacquero moltissimo i suoi Quadri Parlanti e le sue Sculture calde. Era molto competente sulla storia dell’arte italiana e sulla filosofia e abbiamo avuto bellissime conversazioni. Era davvero un’amicizia tra due giovani artisti e qualcuno di affermato. Gli piaceva il nostro lavoro. Lui capiva il nostro lavoro. La sua generazione di artisti non pensava fosse arte al quel tempo. Gli altri, al contrario, erano molto arroganti. Dicevano “questa è arte?”, “ma questo non è niente”, “sono c…e”. Lui invece non lo pensava. Capiva che non facevamo compromessi. E questo per noi era molto importante perchè credevamo in quello che stavamo facendo […].
FRB: Quanto tempo siete rimasti in contatto?
Marina Abramović: Siamo rimasti in contatto fino a quando, negli anni ottanta, non siamo partiti per l’Australia. Poi non abbiamo avuto più modo di sentirci. E’ durato per circa quattro o cinque anni.
FRB: Avete continuato l’amicizia scrivendovi?
Marina Abramović: Sì. Inoltre, avevamo anche un album nella macchina dove potevano scrivere tutti quelli a cui aprivamo la macchina dicendo “questa è la nostra macchina, puoi entrare, accomodati”. Credo di avere qualche annotazione anche di Remo Bianco. Devo guardare.
FRB: Io l’ho incontrato solo poche volte, ma tutti mi dicono che fosse una persona molto gentile.
Marina Abramović: Era molto gentile. Ciò che era veramente interessante nella sua come dire… “vita”, era il fatto che fosse qualcosa che non poteva definirsi nè propriamente Arte Povera, ma neanche espressionista, era molte cose differenti. Io penso fosse troppo in anticipo per il suo tempo. Sì, era molte cose diverse, quindi le persone non potevano collocarlo da nessuna parte. […]. Ma lui sperimentava veramente e questo è il motivo per cui era un “personaggio” importante, interessante. Se non sperimenti, non puoi conoscere nuovi territori. Ma se sperimenti, puoi anche sbagliare. Lui non aveva paura di sbagliare o di cambiare da un mezzo espressivo all’altro. E questo è il motivo per cui lo spirito di Remo Bianco era straordinario per me. Ecco perché mi piaceva.
Informazioni sulla mostra
Remo Bianco. Le impronte della memoria.
Museo del Novecento, piazza Duomo 8, Milano. Dal 5 luglio al 6 ottobre 2019. Orari: lunedì 14.30–19.30; martedì, mercoledì, venerdì e domenica 9.30–19.30; giovedì e sabato 9.30–22.30. Info: www.museodelnovecento.org
Come raggiungere Milano in aereo
Aeroporti vicino a Milano: Aeroporto di Milano Bergamo, Aeroporto di Milano Linate, Aeroporto di Milano Malpensa.
A cura di Nicolò Villa
Fonte e foto: Ufficio Stampa Museo del Novecento/Comune di Milano;
Ufficio Stampa Archivio Remo Bianco
Foto opere d'arte con diritti riservati, © Copyright.
Visual Milano: © Sisterscom.com, Shutterstock
Tutti i diritti riservati. Copyright © Sisterscom.com
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