08 settembre 2018
Milano. Haegue Yang.
Alla Triennale di Milano dal 7 settembre al 4 novembre 2018
Haegue Yang (1971, Seoul, Corea del Sud. Vive e lavora tra Berlino e Seoul) è una delle artiste più riconosciute della sua generazione. Dopo gli studi nella nativa Corea (Seoul National University, 1994), Haegue Yang si trasferisce in Germania e consegue un Meisterschüler alla Städelschule di Francoforte (1999), dove attualmente insegna, mentre prosegue la sua attività espositiva internazionale.
La Triennale di Milano e Fondazione Furla presentano Haegue Yang: Tightrope Walking and Its Wordless Shadow, una mostra a cura di Bruna Roccasalva, promossa da Fondazione Furla e dalla Triennale di Milano.
Prima mostra personale di Haegue Yang in un’istituzione italiana, Tightrope Walking and Its Wordless Shadow raccoglie la vasta gamma di mezzi espressivi che contraddistinguono la sua pratica: dal collage al video, dalle sculture performative alle grandi installazioni. L’estrema varietà dei riferimenti e delle visioni prodotte, che si muovono su una sottile linea tra l’indagine sociale e la storia, tra il vissuto personale e la memoria collettiva, genera percorsi immaginifici di grande potenza evocativa in cui oggetti, persone e luoghi sono inestricabilmente interconnessi.
Tightrope Walking and Its Wordless Shadow si articola in tre ambienti che attraverso la combinazione di lavori iconici e nuove ambiziose produzioni – che rappresentano nodi cruciali nella produzione dell’artista dal 2000 a oggi – restituisce gli elementi ricorrenti nel suo lavoro: l’interesse per l’astrazione e la geometria; il movimento e la performatività; la relazione tra “piegare” e “dispiegare”, che l’artista esplora come pratiche interconnesse. Al centro c’è la sua ricerca dell’“inesprimibile”: l’urgenza di creare un linguaggio la cui potenzialità è come la camminata di un funambolo, in cui ogni movimento è molto più che dinamico, è carico di una tensione che evoca emozioni e percezioni.
Dall’approccio minimalista che contraddistingue la prima sala all’esuberanza fastosa dell’ultimo ambiente, il percorso espositivo riflette gli estremi tra cui si muove la sperimentazione continua di Haegue Yang, in cui l'incontro casuale con un oggetto o un materiale può generare forme, emozioni e narrazioni inaspettate e dove la negazione di conoscenze acquisite coincide sempre con l’apertura di nuove prospettive.
Aprono il percorso due lavori esposti raramente in passato ma considerati seminali: 134.9 m³ (2000/2018) e 81 m² (2002/2018), appartenenti rispettivamente alle serie Thread Installations e Chalk Line Drawings.
134.9 m³ è una barriera quasi invisibile costituita da fili di cotone rosso - tesi tra due pareti a intervalli di 10 cm e con l’impercettibile inclinazione di un grado - che isola un angolo della sala precludendone l’accesso. Il tracciato sembra proseguire sul muro retrostante con 81 m²: una sequenza di linee rette disegnate a gesso rosso che si confondono con i fili, creando un effetto ottico di sottile movimento.
Thread Installations e Chalk Line Drawings, che prendono di volta in volta il titolo dalla misura dello spazio occupato, sono tra le prime opere di natura installativa realizzate da Yang e contengono in nuce aspetti centrali di tutta la sua produzione successiva: dall’interesse per la geometria all’impiego di materiali d’uso comune, fino all’attitudine ad articolare una spazialità ambivalente, concettuale e percettiva, accessibile e inaccessibile allo stesso tempo.
All’interno della porzione di spazio delimitata da queste due installazioni, si intravvede un altro dei primi lavori dell’artista, Science of Communication #1 – A Study on How to Make Myself Understood (2000), che testimonia il suo continuo e faticoso confronto con le problematiche del linguaggio all’interno dei processi di integrazione culturale e sociale. Il testo inizialmente scritto da Yang come flusso di riflessioni personali in una commistione indecifrabile di lingue è stato successivamente editato, tradotto in inglese e restituito in forma comprensibile da un traduttore professionista. L'artista muove dalla propria vicenda biografica - si è trasferita nel 1999 in Germania dalla nativa Corea per completare gli studi universitari a Francoforte - e dalla difficoltà incontrata quotidianamente nel tradurre il proprio pensiero in una lingua straniera.
La necessità della mediazione altrui per realizzare quest’opera esprime l’insicurezza e la vulnerabilità dell’artista, ampliando allo stesso tempo la riflessione alla più generale difficoltà, se non impossibilità, di comunicare se stessi attraverso il linguaggio.
Questo sentimento di incomunicabilità echeggia anche in Mirror Series – Back (2006), uno specchio ovale appeso con la superficie riflettente rivolta verso la parete, come a dare le spalle allo spettatore e al mondo, con un gesto di negazione cosciente e di rifiuto attivo di un ruolo prestabilito e convenzionale. L’opera fa parte di un gruppo di sei lavori (Mirror Series, 2006/2007) in cui l’artista indaga diversi modi attraverso cui uno specchio può venire meno alla funzione di riflettere l’immagine di fronte a sé. Mirror Series esemplifica anche il peculiare approccio alla figurazione di Yang, che nei suoi lavori allude alla figura umana senza mai rappresentarla direttamente o, come in questo caso, evocandone l’assenza.
Dalle “barriere permeabili e trasparenti” di 134.9 m³ si passa a Cittadella (2011), una monumentale installazione composta da 176 tende veneziane che occupa lo spazio centrale della mostra: un ambiente multisensoriale fatto di complesse strutture modulari, attraversate dai visitatori che si muovono al suo interno e da una coreografia ipnotica di luci, mentre diversi profumi si diffondono nello spazio alludendo a un “altrove”. Il titolo Cittadella rimanda a una fortificazione impenetrabile ma l’esclusività di questa architettura è parzialmente illusoria. Le pareti di tende attraversate dai fasci di luce si rivelano permeabili allo sguardo, e i passaggi che si aprono nella geometria esterna della struttura invitano lo spettatore ad addentrarsi e attraversarla.
Da questo suggestivo e immersivo percorso si passa a un altro ambiente, una sorta di sala da ballo sulle cui pareti si dispiega un intervento simile a un murales appartenente alla serie in continua evoluzione dei Trustworthies (iniziata nel 2010). In questo importante ciclo di opere Yang combina diversi materiali grafici: buste con pattern stampati, la sua personalissima rielaborazione della carta millimetrata (Grid Blocs, iniziata nel 2000), vinili riflettenti, immagini di dispositivi tecnici e motivi naturalistici. La serie nasce con la casuale scoperta da parte dell'artista dell’affascinante varietà dei pattern della carta di sicurezza, la stampa usata per l'interno delle buste di documenti con la funzione di proteggere la natura confidenziale del loro contenuto. Mettendo in luce le possibilità estetiche di questi pattern, Yang li usa per creare dei collage: inizialmente paesaggi astratti composti da semplici linee orizzontali, che nel tempo assumono composizioni sempre più complesse - onde, rifrazioni, mulini a vento, composizioni a x, intrecci, caleidoscopi - e incorporano materiali eterogenei come carta da origami, carta vetrata, carta olografica, carta millimetrata, fino a uscire dai confini delle cornici per occupare l’intera parete. Negli interventi più recenti, come quello in mostra, i Trustworthies sono diventati per l’artista uno strumento per creare complesse ambientazioni che ospitano lavori scultorei.
Le figurazioni immaginifiche che si dispiegano lungo le pareti della sala fanno da cornice alla “danza” di due sculture performative della serie Dress Vehicles (inziata nel 2011) prodotte per l’occasione.
Ispirati a forme e concezioni diverse di danza, come le Danze Sacre dello spiritualista russo Georges I. Gurdjieff e i costumi geometrici dei Triadic Ballet (1922) di Oskar Schlemmer, i Sonic Dress Vehicles presentati in mostra, sono pensati dall’artista come “maschere” per dare a chi le indossa una diversa identità, rivelando allusioni ai travestimenti delle drag queen, alle danze tradizionali con le maschere e al teatro delle marionette.
Per Yang la danza è qualcosa di più di un genere, è una forma complessa di espressione, in cui impulsi fisici, socio-politici, spirituali e ritualistici convergono. I suoi Dress Vehicles non consentono molta libertà di movimento: secondo l’artista infatti è nel semplice esercizio di spingere queste gigantesche strutture che si può sentire il "peso" della danza, avere la sensazione di essere “sovrastati” da questi splendidi costumi o, al contrario, “emancipati” dalla possibilità di muoverli nello spazio. Corpi ibridi in cui architettura, scultura e performance si fondono, i Sonic Dress Vehicles sono anche una sintesi perfetta della sfaccettata natura del lavoro di Yang che la mostra racconta.
Info: Triennale di Milano, Viale Alemagna 6. www.triennale.org. Orari: martedì - domenica ore 10.30-20.30 (ultimo ingresso ore 19.30).
A cura di Nicolò Villa
Copyright © Sisterscom.com
Fonte, Foto: Fondazione Furla - Ufficio Stampa; Masiar Pasquali; Gianluca Di Ioia.
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